CIÓ CHE UN ATLETA DI ENDURANCE DEVE SAPERE SULLA BIOCHIMICA DELL’ESERCIZIO
Energetica cellulare, soglie ventilatorie e del lattato, ruolo del lattato, velocità critica, velocità di massimo consumo di ossigeno, dinamica dell’ossigeno, etc etc. Tanti concetti atti a spiegare e definire confini fisiologici che sostanzialmente non esistono se non come pure sfumature biochimiche e nella pratica si risolvono con la guerra ad una unica e grande nemica: la fatica.

“Tutti giochini per dirti che ad un certo punto è meglio che rallenti”. Questo il simpatico pensiero di un caro amico (bravo) allenatore della velocità in atletica.
Come dargli torto.
Individuare determinate “soglie” nella gestione di tutti i giorni ha la valenza dello gnomone per l’orologio solare: il bastoncino che con la sua ombra indica l’orario del giorno su un quadrante tramite esposizione al sole.
Non potremo mai sapere esattamente il minuto o il secondo in un meccanismo simile. Ciò che otteniamo è una evanescente idea di un orario: un aiuto, un valore tenue ed indistinto.
Utile? Certo che si. Non sapere nulla sarebbe molto peggio.
Ma è bene essere coscienti che voler misurare il nostro corpo in cose che accadono al suo interno è una attività difficile, soprattutto durante la pratica di uno sport: possibile solo attraverso l’uso di macchinari di cui pochi sono proprietari…e spesso neanche tramite questo uso è possibile comprendere fino in fondo le cose.
Nella quotidianità servono più che altro coerenza ed umiltà: spesso sarebbe meglio perdere tempo ad allenare quelle, piuttosto che difficili risvolti biochimici.
Così è, se vi pare. Diceva un grande allenatore. – di pensiero (n.b.: Pirandello) –
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IL CAOS
Scrivo questo post in risposta ad una provocazione del caro amico allenatore di cui sopra. Durante una nostra recente chiaccherata, mi ha fatto notare come anche fra il pubblico degli allenatori regni una profonda confusione quando si parla di fisiologia, velocità, passi vari e concetti limitrofi.
Caos di idee, terminologie, vedute.
La scienza in tutto questo svolge un costante lavoro di aggiornamento. Ma gli scienziati stessi, spesso, sono i primi a contraddirsi e dalla loro confusione se ne genera altra, negli ambiti adiacenti.
Una parte degli allenatori è molto ricettiva alle novità, specie quelli più giovani ed “evidence based”. Altri rimangono ancorati ai propri metodi, tacciando di “inutili mode” i colleghi.
Anche io, in quanto allenatore, rientro in queste categorie, seppur da sempre cerchi di essere “aperto” e parlare la lingua più semplice e comune possibile. Ho i miei limiti e paraocchi, come tutti. E in questo post saranno palesi, volenti o nolenti.
Chi ha ragione? Tutti.
Non esiste una verità o una ragione universale. Sono i risultati che parlano. E ognuno ottiene i propri. Questo dovrebbe farci comprendere che le vie per raggiungerli, in ogni caso, sono tante…..almeno quante gli atleti e gli allenatori che le intraprendono.
E, dopo questo pippone, proviamo a fare un punto generico sui concetti del titolo. Possibilmente semplificandoli al massimo e riducendoli a denominatori comuni comprensibili.
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TUTTO MUSCOLI E CERVELLO
Dietro ogni aspetto legato all’allenamento si celano sempre due signori: cervello e sistema nervoso. Definiamo la forza (in modo generico), infatti, come effetto di una contrazione muscolare a sua volta provocata da uno stimolo nervoso.
Quando parliamo di velocità (e varie velocità), anche nel mondo della resistenza, parliamo SEMPRE del risultato dell’applicazione di una forza e quindi del lavoro coordinato del “dinamico duo”.
Uno potrebbe pensare, in modo semplicistico, che a definire una velocità nella corsa sia la semplice applicazione di una forza al terreno. “Più spingo più sono veloce”.
In realtà ci sono più valori che interagiscono, varie interazioni fra forza applicata, forza elastica, eccentrico-riflessa (stiffness) e così via.
Mettiamola così: parliamo di un output meccanico, una potenza in uscita che ha come limiter generante l’attività elettrica scatenata dal SNC (sistema nervoso centrale).
In sostanza, andare forte a lungo è una richiesta coordinativa importante…che ha anche profondi risvolti energetici.
Un ulteriore limiter, dopo cervello e sistema nervoso, infatti, è l’energia che abbiamo a disposizione.
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ENERGIA E CARBURANTI
Eviterò discorsi prolungati sui sistemi energetici.
La comoda trinità che siamo soliti usare (sistema anaerobico alattacido, an. lattacido e aerobico) serve come al solito per l’ordine e la geometria dei pensieri piuttosto che per altro, poichè è da tempo che, a livello scientifico, l’ossigeno, soggetto principale dei 3 meccanismi, è stato esautorato dal pesante fardello di unico responsabile di particolari passaggi di stato metabolico. I passaggi di stato non esistono. Abbiamo uno scorrere energetico che pesca da più fronti in base alle richieste.
L’ossigeno è fondamentale, sì. Ma in un intenso lavoro di equipe. Fondare i pensieri attorno ad un singolo elemento, significa non capire come lavoriamo.
Il nostro corpo sfrutta la miscela di produzione energetica e relativi combustibili principali (fosfati, glucosio, acidi grassi) in base all’entità dello sforzo che gli viene richiesta. L’ossigeno è come il bicchiere di latte in cui bagnare “questi biscotti”.
Ogni carburante, per essere sfruttato a fini energetici, deve essere tramutato in ATP.
In un esercizio di resistenza come la corsa, più la velocità è alta (e quindi è alto il tasso di forza prodotta nel tempo), più la responsabilità dei consumi viene affidata al glucosio, il combustibile più eclettico che abbiamo.
Questo non vuol dire che non si stiano consumando anche fosfati e grassi in quel momento, ma di certo il flusso principale di consumo sarà di gran lunga quello degli zuccheri.
Il corpo aumenta l’uso momentaneo dei fosfati quando servono le “bombe istantanee” di energia (immaginate i fosfati come petardi di energia pronti all’uso) e dei grassi se si allungano le durate e diminuiscono le intensità (il corpo impiega più tempo ad ossidare i grassi, non è un procedimento rapido).
A quel punto, infatti, viene moderato l’uso del glucosio per dare spazio “all’economia” (il bacino dei grassi è pressochè infinito).
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GLUCOSIO, GLICOGENO, LATTATO
Il glucosio è stipato nei muscoli sottoforma di macromolecole di glicogeno e, come sappiamo, ha un solo problema: è limitato. Per sfruttarlo al massimo, il corpo deve accertarsi che ogni singola fibra muscolare e organo impegnato ne abbia a disposizione durante lo sforzo, al fine di raggiungere la massima efficienza possibile.
Per questo, parte del glucosio viene sempre tenuto in circolo come lattato (che ricordo essere la metà di uno zucchero, 3 atomi di carbonio vs 6 del glucosio), pronto, nel caso, a girare abbondante fra le fibre e i principali organi, rimpiazzando le riserve e foraggiando l’intero processo di energia riconvertibile e riutilizzabile.
Il lattato, infatti, come scrivo anche sul mio libro, può essere ossidato ed utilizzato direttamente dalle stesse fibre produttrici, da altre fibre muscolari (più o meno adiacenti) oppure dai principali organi (cervello, cuore, etc) e in fine riconvertito a glucosio (principalmente) nel fegato e nei reni e rigettato nel circolo ematico per raggiungere i siti muscolari bisognosi.
Questo non me lo sono inventato io, ma quello che probabilmente è il più grande studioso di sempre di questo metabolita: il Prof. George Brooks (1). Di lui parlo ampiamente anche in RUN.
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FINE ULTIMO: PERMEABILITÁ CELLULARE
Il lattato è sempre presente all’interno del nostro corpo e ha incredibili scopi di filler fra più comparti. A livello di allenamento è necessario considerarlo come un efficace alleato per indurre adattamenti cellulari consistenti, primo fra tutti: PERMEABILITÁ CELLULARE.
Più la cellula muscolare è permeabile più è in grado di velocizzare i passaggi energetici.
A quel livello, infatti, la velocità dei passaggi fuori-dentro/dentro-fuori membrana è sommariamente l’unica in grado di garantire certe intensità di esercizio.
La produzione di lattato sfrutta e addestra la permeabilità cellulare. É ovvio che lo scopo del corridore di resistenza non sarà solo migliorare questo aspetto, ma far sì che il lattato possa essere ossidato nel minor tempo possibile per poterne sfruttare al massimo le derive energetiche e mantenere una “clearence” ottimale.
Questo pensiero deve portare atleta ed allenatore ad una gestione oculata dei mezzi che addestrano non solo la produzione ma anche l’ossidazione di questo metabolita.
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FUNZIONE LACTO-ORMONALE E MICROBIOMA
Buona parte della letteratura scientifica, oltre a ritenere che il lattato abbia valenze di segnalazione ormonale, cioè che costituisca un segnale forte innanzitutto per la produzione di GH (funzione lacto-ormonale), conferma che potrebbe essere parte di un discorso molto più ampio che coinvolge il nostro microbioma intestinale e l’endurance: leggete lo studio che allego (2).
Si parla di microbioma e di una sua particolare specie: la Veillonella. In questa sede non mi apro ad ulteriori considerazioni in merito poichè appesantirei troppo i discorsi: invito invece gli interessati a leggere (oltre allo studio allegato) questo articolo in italiano per capire meglio i temi di discussione.
Questi studi aprono un enorme porta sul nostro intestino e sulle migliaia di colonie batteriche che lo abitano.
Permettemi adesso una breve digressione, prima di tornare a noi.
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IL POTERE DEL MICROBIOMA
Noi SIAMO i nostri batteri. Sarebbe molto stupido pensare che la loro interazione non sia vitale all’interno del metabolismo umano.
Ma a differenza del nostro genoma, per il quale non possiamo fare molto se non incolpare genitori e nonni, il microbioma è potenzialmente modificabile. E questo ci apre davanti un mondo veramente grandioso ed emozionante.
Per esempio è già provato che esistono giunzioni importanti fra colonie batteriche, sistema nervoso e cervello (5). Insomma, siamo sul pezzo.
Il problema è che il nostro viaggio è solo all’inizio e le cose che sappiamo sono ancora poche e frammentarie. Parecchi degli esperimenti più interessanti sono ancora svolti solo (o per fortuna) su animali.
Tuttavia una cosa la sappiamo: l’intestino è assolutamente centrale al fine di una buona performance (sportiva, di studio, di lavoro) e questo è innegabile. Emozioni e gestione enterica sono da sempre interconnesse, un’unico ambito.
Da questo punto di vista la nostra conoscenza sulla gestione qualitativa e selettiva dei cibi e l’integrazione probiotica può aiutarci eccome.
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CA**I ACIDI
Si parlava di lattato: la parte negativa del processo lattacido è che si accompagna ad un certo grado di acidità.
Dal mio libro:
“La caratteristica degli acidi è liberare ioni idrogeno in soluzione. La scala chiamata pH indica, a livello pratico, la ‘potenza d’idrogeno’.
Quindi, più ioni idrogeno sono liberati, più è acida una soluzione”.
da RUN – CORSA E PERFORMANCE – Libro uno
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Si è sempre pensato che il lattato si accompagnasse alla produzione di ioni idrogeno, pertanto più lattato in corpo = più acidità. Da qui il “vecchio” nome di acido lattico e la sua cattiva reputazione.
In realtà il lattato, come visto, è una molecola positiva, innoqua e piuttosto lontana dal voler creare problemi (anzi, il contrario al massimo!).
É stato dimostrato (vedi riferimenti scientifici in fondo al post) che, indipendentemente dal fatto che la glicolisi produca protoni (H+) o meno, questi stessi protoni non influenzano il sangue su base uno-a-uno (un H+ per ogni molecola di piruvato), come invece si pensava.
Il discorso però è che l’acidità rimane la conseguenza pratica più evidente dati grandi quantitativi di lattato in circolo. Basta misurare il pH ematico di un ottocentista dopo una gara o anche di una persona comune dopo 3 o 4 minuti di corsa forsennata, per rendersene conto.
Si chiama ACIDOSI (LATTICA) per un motivo. E, ahimè, non occorre inventarsela per averci a che fare.
Quindi che sia colpa dei protoni, delle proteine di membrana cellulare, della pressione parziale di CO2 nel sangue (1), di altri sottoprodotti…….di tutto questo, o dell’unghia incarnita del mignolo del piede sinistro, poco importa a livello pratico, perchè la questione è quella e tale rimane.
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LATTATO E FATICA
La conseguenza più pratica e tangibile è la seguente:
Tanto lattato nel circolo ematico/alto output meccanico = parecchia fatica percepita. Basta l’esperienza quotidiana in allenamento per impararlo.
Ecco perchè
- valutare il quantitativo di lattato ematico può servire per comprendere meglio il grado di affaticamento dell’organismo durante un esercizio di resistenza (detta “brutta brutta”).
Questo è anche il perchè da anni, foriamo atleti e misuriamo il lattato. É un sistema di misura come un altro.
Facendolo (attraverso svariate tipologie di test) ci siamo accorti che siamo in grado di associare delle intensità (soggettive) a dei quantitativi (altrettanto soggettivi) di questo metabolita.
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LA PRATICA DA CAMPO
Misurando ad intervalli regolari la presenza di lattato nel sangue attraverso un prelievo dal lobo dell’orecchio mentre, per esempio, si eseguono delle prove sui mille metri ad andature (gradualmente) sempre più svelte, ci si accorgerà che…
- esiste un intervallo di velocità entro le quali il lattato prodotto, pur crescendo, rimane su quantitativi che riescono ad essere smaltiti senza eccessivi problemi.
- Oltre una determinata soglia/andatura, invece, esso comincerà ad accumularsi in modo decisamente esponenziale.
Quando e perchè accade questo?
Accade quando il corpo è di fronte ad uno sforzo che richiede intensità (forza, relativa collaborazione nervosa ed entità energetica) che non è abituato a gestire. Questo perchè, probabilmente, in quei momenti ha richiamato in aiuto fibre e relativi meccanismi cellulari poco addestrati a lavorare a lungo a quei regimi.
Ed eccoci al dunque.
Voglio esprimermi come se parlassi ad un amico perchè voglio che sia un discorso chiaro e lampante:
“L’uomo questa “cosa” che, ad un certo punto, pone un limite fisiologico alla sua performance non riesce a digerirla. Siamo esseri umani, dobbiamo cercare di misurare e spiegare tutto o ci sentiamo troppo piccoli di fronte alla (nostra) natura“.
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LA SOLENNE MAZZA (TERMINE NON-SCIENTIFICO RICONOSCIUTO IN VARIE LINGUE)
É da più di un centinaio di anni che cerchiamo di misurare questi benedetti limiti fisiologici. Con tantissimi risultati simili che portano ad una conclusione inevitabile e condivisibile, ovvero una solenne mazza, tant’è che nel 2021 siamo ancora qui a provare a spiegare cose, ognuno a suo modo.
Nessuno ha mai avuto la verità in tasca.
Prendiamo come esempio la famosa SOGLIA ANAEROBICA, il terzo segreto di Fatima.
Vediamo come, banale misurazione del lattato a parte, in questi anni si è cercato di spiegare e misurare questo stato biochimico (vedi (3)):
- scambio di gas polmonare (GET; Beaver et al., 1986)
- rapporto di scambio respiratorio (RER; Wasserman et al., 1973)
- elettromiografia muscolare (Jurimae et al., 2007)
- frequenza cardiaca (Conconi et al. , 1980)
- catecolamine plasmatiche (Davies et al., 1974)
- amilasi salivare (Chicharro et al., 1999)
- tasso di sforzo percepito (Voorn et al., 2014; Coquart et al., 2017; Alberton et al., 2019)
- risposta coordinata del sistema nervoso centrale (Peinado et al., 2014)
Fosse una cosa chiara e limpida…ci sarebbe bisogno di tutti questi mezzi interpretativi?
Lascio ad ognuno la risposta.
Ciò che mi pongo io è invece una domanda…trovare ESATTAMENTE una soglia anaerobica, chiamiamola così, che esatta non è e che, nel peggiore dei casi, forse non esiste neanche, è davvero una cosa così importante?

Per l’allenamento quotidiano, come detto, probabilmente non serve così tanto.
Forse basta…lo gnomone (che non è quello dell’immagine a sinistra ma un briciolo di ironia non guastava). Pausa caffè.
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LA MIGLIORE MISURAZIONE DEL MONDO
Rimaniamo pratici: se potessi osservarmi in profondità nel momento in cui attraverso quella fantasmagorica soglia mi accorgerei che il “lavoro meccanico” di cui parlavo ad inizio post è aumentato di una considerevole porzione e così, come detto, l’output di forza prodotta.
Come già sottolineato, sto esigendo velocità di procedimenti biochimici, nervosi, cellulari che il mio corpo non riesce ad amministrare come al solito. Si sta allontanando dallo stato che preferisce: quello di OMEOSTASI, di EQUILIBRIO.
Da quel momento in poi, è il caso di dirlo, o rallento o ho i minuti contati.
Osserviamo la finezza: la serie di procedimenti meccanici e biochimici in atto influenzeranno la mia percezione dello sforzo. Sarà questa percezione a farmi rallentare in pratica.
Quindi, in realtà, il nostro corpo (grazie al sistema nervoso centrale e alle conseguenti sensazioni percepite) ci fornisce già la migliore misurazione del mondo!
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I PRINCIPALI MARKER FISIOLOGICI
Ma la curiosità è umana……e nella pratica, come si diceva prima, la presenza di certi marker ci aiuta a trovare appigli per placarla.
Fortunatamente, questi riferimenti ci possono essere molto utili anche per l’allenamento, soprattutto appurato che la nostra percezione dello sforzo (la cosa in realtà più tangibile che abbiamo) non ci basta mai.
Quali sono questi potenziali marker? Diversi (basta riguardare l’elenco di due paragrafi fa per capirlo). Vediamo i 3 più a portata.
Del primo ne abbiamo parlato fino adesso:
LATTATO
- i due punti agli estremi dell’intervallo di equilibrio del lattato vengono identificati come prima e seconda soglia del lattato.
- Il primo di essi è il punto più basso di intensità di quell’equilibrio, cioè il punto in cui si assiste ad un primo aumento della produzione di lattato rispetto ai valori basali. Di solito in questo range di richiesta metabolica si è verifica anche il tasso di massima ossidazione dei grassi (4).
- Il secondo è invece il punto più estremo di questo “turnover” fra accumulo e smaltimento (MLSS – Maximum Lactate Steady State). A questi punti, naturalmente, corrispondono delle andature.
Un altro marker “classico” è il…
RESPIRO
- Nel caso avessimo a disposizione un metabolimetro e una mascherina respiratoria potremmo accorgerci di questo paio di “imbarazzi di gestione metabolica” anche attraverso l’esame del nostro respiro. Queste stesse soglie ci apparirebbero scandite tramite delle percentuali di ossigeno e anidride carbonica più o meno marcate. In questo caso si parlerebbe di soglie ventilatorie.
Vediamo il terzo?
BATTITO CARDIACO
Anche il nostro cuore risponde agli stimoli. Con un lieve ritardo rispetto a ciò che gli accade intorno, ma in modo altrettanto delineato. Non per niente la curva che il battito cardiaco disegna in un test che gradualmente ci fa arrivare ad uno sforzo massimale ha in genere un paio di punti (più o meno evidenti in base al soggetto in esame) che descrivono gli ostacoli gestionali già ampiamente trattati. Il primo spesso è confuso come un camaleonte in una vasca di smarties, mentre il secondo, corrispondente in genere alla soglia anaerobica, è evidenziato da una deflessione di solito più marcata. Ma, ahimè, ogni tanto anche no. Meglio dirle certe cose.
Fermiamoci qui. Tre metodi (fra poco vedremo anche il quarto, ma ce ne sarebbero, come detto, di più), solita conclusione.
Questi “punti” non sono paletti delineati. Sono zone più o meno ampie (in base a vari aspetti), piuttosto sfumate ed indefinite e anche le corrispondenti andature non possono che essere altrettanto flessibili.
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VELOCITÁ DI MASSIMO CONSUMO DI OSSIGENO
Se in questi test decidessimo di proseguire la nostra corsa fino a scoppiare, ci accorgeremmo che all’aumentare dell’intensità di esercizio aumenterebbe l’espirazione di anidride carbonica (presente il classico fiatone?) a fronte di un consumo di ossigeno che, ad un certo punto, tenderebbe invece a stallare. Questa zona di stallo viene identificata come zona di massimo consumo di ossigeno, un’altra soglia piuttosto flessibile (fino ad un limite genetico), che rivela in realtà una interessante componente lenta nella cinetica di questo gas.
Il consumo di ossigeno tende a salire in modo esponenziale nei primi minuti di un esercizio “tirato” e poi RALLENTA. Questo a testimoniare che l’efficienza con cui il corpo utilizza l’ossigeno a scopo energetico si smarrisce gradualmente mentre l’esercizio continua alla stessa velocità.
Ecco perchè un riferimento molto più semplice e tangibile per allenare il massimo consumo di ossigeno e questa componente lenta (nella pratica) non è la misurazione millesimale dell’espirato, ma una velocità (vVO2max, VAM o velocità aerobica massima).
Anche su questa velocità si sono architettate varie finezze tecnico/tattiche, squisite: “la minima velocità a cui è possibile raggiungere lo stato di massimo consumo di ossigeno”, BLA, BLA, BLA.
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UN ESEMPIO CONCRETO
Finchè parliamo di atleti elite, che lo fanno per professione, tutto ok…….ma il film dell’amatore che, dopo 7 ore di lavoro, va a fare le ripetute alla VAM (o a qualsiasi altra velocità plausibile) è un filo differente.
É un film a finale incerto: spesso è a lieto fine, ma altrettanto spesso si colora di tonalità comico/drammatiche.
Ecco i due casi classici:
- Il tale prenderà come riferimento una certa andatura (ci si augura quella che avrà sperimentato in un test adeguato) e, se non troppo stanco dalla giornata di lavoro, riuscirà a mantenerla per il numero di volte che si è prefissato.
- Diversamente, dopo qualche ripetuta rallenterà e, imprecando, penserà: “Perchè non vado oggi?…Forse l’andatura del test che ho fatto non va bene?! Forse sono peggiorato?!”.
No, semplicemente la condizione nervosa del momento non ha permesso l’output strutturale richiesto.
“La soglia” ricercata in quell’istante sarà altrove, ad una velocità (probabilmente) inferiore. Alla faccia dei test e delle misurazioni.
Ecco cosa succede nella realtà di tutti i giorni. A testimonianza che il corpo è come la Justice League: un INSIEME di elementi, non tanti singoli.
E NOTA BENE: è SEMPRE la percezione dello sforzo, alla fine, che comanda. In faccia ai sensori, ai GPS, ai cardiofrequenzimetri, etc etc.
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VELOCITÁ CRITICA E ANNESSI
All’interno di questo disegno cinematografico, insieme alle varie velocità che è possibile prendere in considerazione per le cosiddette ripetute, irrompe anche il quarto tipo di misurazione di cui parlavo (vedi sopra) poco fa, che in questi ultimi anni ha avuto l’onere e l’onore di introdurre un concetto molto importante.
Come se non bastasse il casino che già c’è in termini di vocabolario sportivo e nozioni, anche nella corsa di resistenza è stato adottato il concetto di velocità critica (critical velocity o critical power) introdotto dal ciclismo.
Questo anche grazie all’arrivo di specifici sensori di potenza nella corsa che hanno aggiunto il famoso output di potenza descritto ad inizio post come parametro di confronto rispetto agli altri che già c’erano.
Per stringere: la velocità critica è una velocità che viene considerata spesso coincidente (o leggermente superiore o inferiore, in base all’atleta) a quella di seconda soglia del lattato (o soglia anaerobica, o MLSS, che dir si voglia). Una velocità media, un output meccanico, che ha risvolti sia biochimici, sia strutturali (la composizione di fibre di un atleta, le conseguenti composizione biochimica e irrorazione sanguigna).
In poche parole:
– tante fibre di tipo 1, tanti capillari a disposizione (le fibre di tipo 1 hanno una rete molto ampia al loro servizio), tanto ossigeno, tanti mitocondri, migliore possibilità di avere una velocità critica alta.
– Tante fibre di tipo 2, meno capillari, meno ossigeno a disposizione, meno mitocondri, più difficoltà di gestione di questo parametro.
A parte questo problema di “idraulica”, una scarsa popolazione mitocondriale produrrà un più rapido consumo di glicogeno muscolare e una relativa propensione verso l’accumulo di protoni (H+) e altre sostanze in grado di creare fatica.
La velocità critica è nelle dirette vicinanze della velocità che si mantiene quando “si tira” una gara da 10 km e, a volerla inquadrare direttamente come “potenza di uscita”, sarebbe la potenza media che si riesce a gestire per una mezzoretta/quaranta minuti (anche se nei test con il giusto arrotondamento potrebbe bastare una prova sui 20/25 minuti).
Naturalmente siamo tutti autorizzati a pensare ad una supercazzola, perchè in gran parte lo è. In molti preferiscono usare questo, rispetto al termine “soglia anaerobica”, perchè quest’ultima incoraggia il concetto che il lattato causi la fatica.
In realtà, come abbiamo visto, così non è. Se le concentrazioni di lattato spiccano il volo significa che si è passato il proprio equilibrio gestazionale (meccanico e biochimico) di cui la velocità (o la potenza) critica è testimone.
Più si è stanchi, per esempio, più questa velocità sarà minore e sarà possibile raggiungerla attraverso output di potenza inferiori.
Detto questo, come sempre, in base al soggetto esaminato, al suo grado di esperienza e al suo rapporto con la fatica, avremo risultati parzialmente differenti.
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LA REVISIONE DI POOLE
Tutti questi discorsi di fisiologia di esercizio preoccupano sempre di più gli scienziati rispetto agli atleti e agli allenatori, che sono spempre più impegnati da problematiche sul campo.
Se andiamo a prendere qualche scartoffia scientifica a riguardo potremmo leggere tanto, ma non tanto quanto troviamo nella revisione dell’ultimo cinquantennio abbondante di storia del lattato e di tutte le teorie e i calcoli svolti su di esso che il Prof. David Poole insieme ai suoi eminenti colleghi (tra cui, guarda caso, sempre George Brooks) hanno fatto uscire qualche mese fa.
In questa revision la velocità critica (o critical power) è presa come vera prerogativa di allenamento.
“la soglia per un contributo non ossidativo prolungato all’energia dell’esercizio è la potenza critica (CP), che si verifica a un tasso metabolico spesso al di sopra della seconda soglia del lattato e separa l’esercizio pesante da quello di intensità molto pesante / grave“(3).
Molto gentile Dott. Poole. Glielo spiega lei agli amatori che per molti di loro è più o meno la stessa cosa?
“Il Critical Power è teoricamente equivalente alla MLSS, ma la sua determinazione è esente da evidenti pregiudizi di misurazione verso tassi metabolici o di lavoro inferiori. Stando così le cose, è istruttivo esaminare le caratteristiche fisiologiche dell’esercizio eseguito più veloce, al contrario di “appena più lento” del critical power in quanto queste possono fornire importanti spunti sui meccanismi stessi di limitazione dell’esercizio stesso”.
“L’esercizio eseguito più velocemente del Critical Power suscita uno spettro completamente diverso di profili polmonari (ventilazione, scambio di gas, volume di O2), acido-base del sangue e profili intramuscolari (Pi, H +, ADP, PCr), nonché più marcate caratteristiche di affaticamento. Nello specifico, in tutti i casi, durante l’esercizio più lento di CP, ogni variabile è più stabile ed è associata alla capacità di sostenere l’esercizio. In netto contrasto, durante l’esercizio più veloce di CP non è possibile alcuna stabilizzazione e la perturbazione di ciascuna variabile aumenta fino all’esaurimento (3).
Quindi facciamola banale: tanti concetti per arrivare alla solita vecchia conclusione…se vai troppo forte la biochimica del tuo corpo va a farsi benedire.
E…….anche la tua testa SEMBRA fartelo notare.
Probabilmente è possibile vivere sereni anche non sapendo nulla di tutto questo, ammettiamolo.
Eppure Poole sembra volerci comunicare che “Riuscire a capire la Velocità Critica di un atleta, confrontandola con quella di seconda soglia del lattato, potrebbe farci comprendere che attitudini ha. Se la differenza è alta potrebbe avere propensioni anaerobiche evidenti”.
Bene.
Ammesso che le “propensioni anaerobiche” non esisteranno almeno fino a quando non dimostreranno l’esistenza di Aquaman (poichè l’ossigeno è SEMPRE parte di ogni meccanismo muscolare), a questo punto conviene aver presente che allenarsi nella pratica quotidiana non può sottostare a tutte queste leggi matematiche.
E una persona in grado di ascoltarsi e conoscersi veramente, potrebbe ottenere le stesse certezze di un ingegnere che lo esamina dettagliatamente, senza tanti calcoli alle spalle. Mi viene in mente Eliud Kipchoge quando, molto serenamente, disse agli ingegneri NIKE: “voi datemi pure le scarpe e tutto il resto, ma a cosa fare in allenamento ci penso io, grazie mille”.
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CHIUDIAMO I DISCORSI
A questo punto arriva il mio caro amico e mi fa:
“Ma i risultati delle gare non indicano la stessa cosa senza farsi tante criticalpowerpippe?”.
Non fa una piega. Se uno va forte in un 5mila e in mezzamaratona fa abbastanza schifo…non ci vuole l’esame della velocità critica per capire che probabilmente è un filo meno portato per la distanza. Dopotutto non sono forse le gare i migliori test al mondo?
La velocità critica (come poi il concetto di soglia anaerobica, ventilatoria, FTP e tutte le varie soglie universali dell’endurance) non è che un limite sostenibile di potenza. Cioè il lavoro massimo tollerabile dato un limite di tempo.
Poi ci possiamo fare sopra tutti i ricami e i merletti possibili, coniare le definizioni più originali e fantasiose e prendere le misurazioni più all’avanguardia…ben sapendo però che non esiste NULLA al mondo di così esatto e razionale per se stessi come la conoscenza e la gestione delle proprie sensazioni.
E quelle, ahimè, non le si gestisce con la tecnologia. Ma chi ne è padrone, nell’endurance, è di certo un atleta difficile da battere.
Riconoscere questa semplicità è un umile modo per rendere il giusto onore alla ENORME COMPLESSITÁ che domina la nostra biologia: un inchino rispettoso alle tante sfumature che il corpo è in grado di disegnare.
D.
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(N.B.: terrò questo post costantemente aggiornato alle ultime evidenze).
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RIFERIMENTI SCIENTIFICI
- Brooks, George – The Science and Translation of Lactate Shuttle Theory link: https://doi.org/10.1016/j.cmet.2018.03.008
- Scheiman J, Luber JM, Chavkin TA, et al. Meta-omics analysis of elite athletes identifies a performance-enhancing microbe that functions via lactate metabolism. Nat Med. 2019;25(7):1104-1109. doi:10.1038/s41591-019-0485-4 – https://www.nature.com/articles/s41591-019-0485-4
- Poole DC, Rossiter HB, Brooks GA, Gladden LB. The anaerobic threshold: 50+ years of controversy. J Physiol. 2020 Oct 28. doi: 10.1113/JP279963. Epub ahead of print. PMID: 33112439.
- Achten J, Jeukendrup AE. Relation between plasma lactate concentration and fat oxidation rates over a wide range of exercise intensities. Int J Sports Med. 2004;25(1):32-37. doi:10.1055/s-2003-45231
- Cassandra Willyard How gut microbes could drive brain disorders https://www.nature.com/articles/d41586-021-00260-3?utm_source=Nature+Briefing&utm_campaign=4dbcabc567-briefing-dy-20210203&utm_medium=email&utm_term=0_c9dfd39373-4dbcabc567-45837474