SULL’ALLENAMENTO DEL RESPIRO NELLA CORSA (E NEL TRIATHLON)

Quanto conta allenare il respiro in queste discipline? La teoria potrebbe essere diversa dalla pratica? Meglio esercizi di apnea o di respirazione controllata? Dov’è il confine fra reale utilità di queste pratiche per chi si allena e scopi commerciali di chi propone l’allenamento?
Lascio una breve e pragmatica opinione, cercando di fare chiarezza in questa foresta abbastanza oscura.
Incipit: il topic nasce da alcune richieste fatte nello spazio commenti del mio canale telegram (t.me/danielelucchicoaching) a cui poi è seguito un mini-post (sempre sul canale) con relativi commenti ufficiali sia lì che sul gruppo privato in appoggio. Oltre a questo, nei giorni successivi, sono arrivati altri contatti privati via mail e whatsapp. Un micro-vespaio di pensieri ed opinioni che ha spalancato dubbi e domande di vario genere a cui credo sia utile rispondere.

Protocollo di apnea forzata: “In montagna…a casa propria?”
Dopo un primo scambio di domande e risposte sull’argomento, un utente/atleta ha pubblicato nel canale-commenti-privato del mio canale un protocollo per il ciclismo (vedi immagine sopra) tratto da una importante piattaforma.
Lo scopo del protocollo, come da citazione diretta, sarebbe quello di: “simulare un’attività di assenza di ossigeno, situazione tipica dell’attività fisica in altura”. Questo permetterebbe “di aumentare la quantità di globuli rossi e di conseguenza il trasporto di ossigeno ai tessuti”.
A questo punto bisognerebbe capire su quale libro di fisiologia ha studiato chi ha scritto queste frasi.
Innanzitutto si parte da una base paradossale, cioè che in altura vi sia “assenza di ossigeno”.
Se questo fosse vero probabilmente non avremo abitanti al di sopra dei 1000 metri di altitudine e assisteremmo alla morte in diretta di milioni di sciatori ogni anno, andati a suicidarsi volontariamente, oltre tutto.
Inoltre perchè spostare intere nazionali in ritiro fra le montagne quando gli stessi obiettivi fisiologici si possono raggiungere comodamente, in qualsiasi posto del mondo?
La cosa grave è che questa terminologia di base sia parte fondante di protocolli consigliati a migliaia di persone (anche su Oxygen Advantage – libro di McKeown, su cui poi sono stati costruiti siti e corsi relativi, per esempio, è possibile trovare, ahimè, qualcosa di simile). Purtroppo di cose così ne capitano da sempre sul web e, a dir la verità, si può trovare molto di peggio. É una perpetuazione dell’ignoranza, una segata alle gambe della logica alla base della fisiologia umana.
Questo, ad ennesima testimonianza che, in un siffatto mondo, o uno è sveglio e si interessa in prima persona degli aspetti che possono riguardarlo (a 360 gradi), dubitando ed approfondendo ogni argomento gli venga proposto da CHIUNQUE, studi scientifici compresi (i primi da leggere in maniera esauriente e mettere in dubbio: la scienza DEVE tornare ad essere quesito e dialogo continuo, non dogma indiscutibile), oppure…via con il “SONO PIGRO E MI FIDO”, un atteggiamento facile e poco dispendioso, che elimina tutte le ipotesi scomode e dannose, nascondendole dietro il velo dell’ignavia.
Ma andiamo oltre.
Reality Kings
In realtà, ciò che si modifica in altura è la pressione dell’ossigeno, che diminuisce proporzionalmente a quanto si sale ↑.
Cito da RUN – vol. 1:
Con la quota si riduce la pressione parziale dell’ossigeno, pertanto il passaggio di questo gas nel sangue è rallentato. Per raccogliere la stessa quantità di ossigeno anche la circolazione dovrebbe rallentare, cosa che naturalmente non avviene. Per questo motivo l’emoglobina lega meno ossigeno e si crea una situazione di leggera ipossia, cioè l’avere a che fare con una più scarsa presenza di ossigeno nell’organismo. Questo, a lungo andare, provoca degli adattamenti specifici che possono influire sul costo della corsa.
Differenze di stimoli
In alta montagna la risposta del nostro fisico si adatta ad una imposizione dell’ambiente. É uno stimolo continuo, che agisce per tutto il tempo in cui si è in quota. La produzione di eritropoietina e, conseguentemente, di globuli rossi, sono costrette dalla natura, nel tempo, senza imposizioni volontarie, a totale parità di gestione dei propri ritmi respiratori fisiologici. É biologia naturale.
Questo non c’entra un accidenti con gli esercizi di apnea che facciamo a casa nostra s.l.m. (o di corsa o in bici come proposto – diverso è il discorso per il nuoto, in cui l’abitudine a certe apnee può essere utile ai fini della riuscita tecnica di una performance), dove la pressione dell’ossigeno non cambia di una virgola.
Ciò che si fa è niente più di un gioco: cioè applicare per qualche minuto una modificazione volontaria alla propria respirazione, cambiando i parametri fisiologici che essa controlla direttamente.
Cervelli e apnee
Immaginate ora di essere il vostro cervello, una parte del corpo che viene incontro ad ogni esigenza volontaria, anche la più stupida, finchè può. Imporsi delle apnee blocca la naturale acquisizione di ossigeno per il tempo in cui l’apnea è indotta, poichè appena si tornerà a respirare normalmente, l’equilibrio gassoso tornerà tale. Il primo e unico input gestionale che la volontarietà del gesto comunica è quello di abituare il corpo a resistere a concentrazioni più elevate di anidride carbonica.
In poche parole: si trattiene il respiro per imparare a resistere meglio…senza respirare. That’s all folks.
Questo va ad agire sulla produzione di eritropoietina e globuli rossi? Certo, ma in modo del tutto transitorio (qualche ora) e ininfluente agli scopi principali proposti. Fosse così semplice ottenere certi risultati…
E a livello meccanico che succede? Si impatta la coordinazione del diaframma (e i tanti altri altri muscoli coinvolti) e, indirettamente, lo stato del sistema simpatico.
Mi spiego.
Un sistema “simpatico”: ovvero la differenza fra leoni, bambole assassine e linee di partenza
Quando è che si trattiene il respiro normalmente?
“Quando sei faccia a faccia con un leone nella savana e devi decidere come salvarti la pelle”, ma una serie di risposte più corrette e in linea rispetto ai tempi in cui viviamo potrebbe essere: “Quando guardi la scena clou di un film horror”, oppure “quando stai facendo dei calcoli immobile davanti al computer”, oppure “quando stai per battere il mostro dello schema finale del tuo giochino preferito alla Play”, oppure “quando sei sulla linea di partenza di una gara in attesa dello sparo”.
Insomma quando il sistema simpatico, quello dell’attacco e fuga, prende il sopravvento sul gemello diverso: il para-simpatico. La iper-attivazione di questo sistema produce una risposta nervosa amplificata in ogni dove, un super lavoro celebrale, e una ricerca più affinata di controllo sulle fibre muscolari (il retaggio ancestrale è ancora presente in ognuno di noi).
Tuttavia, a livello puramente meccanico, non respirando, si allena il diaframma (addominali obliqui, etc, etc etc) a mantenere isometricamente una tensione e, solo dopo aver ripreso a respirare, lo si allena a coordinarsi dinamicamente: cosa che, per un atleta di endurance, potrebbe avere più senso compiuto. Ma fino a che punto?
E ora una favola.

Storie di apnee e notti insonni
C’era una volta un atleta che, a forza di esercizi a base di apnee protratte eseguite di tardo pomeriggio, si regalò una serie di notti insonni e di seguito, a valanga: una stanchezza lunga come il ponte di Brooklin, un’infortunio al polpaccio e una influenza in pieno agosto. Non è una fiaba dei fratelli Grimm. Potrei fare nome e cognome, ma ho ancora un’anima e mi limiterò a delinearlo come “un atleta che non ha voluto ascoltare un consiglio”.
Mi permetto di scherzare su queste cose solo come esempio e perchè so che chi leggerà ci riderà sopra (agosto è lontano…).
Questa storia al limite è uno dei tanti plausibilissimi risvolti di un uso sconsiderato di certi esercizi.
Attività di apnea buttate lì e non ben focalizzate all’interno della giornata, possono attivare una iper-attività del sistema simpatico in grado di sbalestrare parecchi equilibri. Quindi cerchiamo di capire cosa stiamo facendo, perchè e, nel caso reputassimo serva ai nostri scopi, cerchiamo di appurare almeno quando farlo.
Tardo pomeriggio o sera?…Meglio di no, per esempio.
Quindi, apnee a parte, conta allenare il respiro nelle discipline di endurance come la corsa e il triathlon?
Certo che conta, sebbene tutti noi ci “alleniamo” col respiro, 24 ore al giorno, da quando nasciamo. Il quanto conta invece è prettamente soggettivo. Una risposta generica potrebbe essere che conta perchè tutti sono capaci a respirare, ma pochi sono capaci a gestire il proprio respiro sotto sforzo, che è un’altra cosa.
Questo però non significa che sia per forza necessario farlo in specifico, nè che chi è bravo in questo tipo di gestione riesca a fare tempi stratosferici gareggiando in queste discipline.
Chiariamoci: già le gare e gli allenamenti tirati mettono meccanicamente in difficoltà i muscoli respiratori, quindi è l’allenamento dell’endurance stessa che migliora questi aspetti.
Quindi allenare la respirazione rimane una delle tante finezze in grado di smussare gli spigoli di una prestazione, ma non in grado di modificarla radicalmente.
Alert
Le frasi sopra scritte rimangono vere a meno che il tema non sia: “atleti con limitazioni strutturali e/o fisiologiche importanti a livello di capacità polmonare”. In questo caso è ovvio che miglioramenti in questo senso (cioè esercizi per allargare – strutturalmente e/o a livello funzionale – il bacino di approvigionamento fino a normalizzarlo), porterebbe la prestazione (e proprio la salute) su un livello decisamente migliorato rispetto alla opzione di base.
Una premessa pratica
Ciò che adesso segue sono consigli pratici basati sulla mia esperienza personale da allenatore. Per esempio: non consiglierei mai ad un atleta un esercizio di coordinazione respiratoria fatto in dinamica (correndo o andando in bici), se prima non è in grado di eseguirlo bene in statica (da fermo)!
Tuttavia non ho alcuna velleità di coaching su questi argomenti, prendetele come le parole di un buon amico. Su questo tema si potrebbe dire tanto di più di ciò che frettolosamente sto esponendo (non per niente ci hanno scritto libri) ed è qui mia intenzione rimanere sulla pratica concreta, onesta e redditizia, in rapporto alle enunciate esigenze quotidiane degli sportivi di resistenza. É ovvio che se uno sa, o ritiene, di avere necessità particolari DEVE preoccuparsi di tutto questo in maniera più approfondita.
Personalmente, dovendo migliorare l’atto respiratorio, preferisco concentrarmi su quell’atto, evitando apnee prolungate, oggetto di altri sport ed esigenze differenti.
Let’s have some action.

Quali esercizi?
Uno dei problemi principali e più sottovalutati di corridori e triatleti, soprattutto se anche lavoratori, è la qualità del sonno: per questo, spesso, mi piace lavorare su questo problema agendo sulla sponda del respiro, ottenendo un doppio vantaggio nel totale (cioè il plausibile miglioramento di entrambe le situazioni).
Come? in maniera esattamente opposta da quanto presentato prima, cioè in modo che venga favorito il riequilibrio dei sistemi simpatico e parasimpatico e si aiuti il rilassamento, anzichè la veglia (uso consigliato: di sera).
Esercizio 1: respira (e allungati)!
Da questo punto di vista trovo di grande utilità l’ampiamento delle tempistiche della respirazione naturale, con inspirazioni lente, lunghe e continue, ad occhi chiusi, partendo dalla pancia fino a riempire la parte toracica e clavicolare per 2 o 3 secondi, facendo una ritenzione “piena” di 2 o 3 secondi e lasciando l’espirazione proseguire in maniera inversa (parte clavicolare, toracica e poi addominale) per una tempistica tripla rispetto alla inspirazione, fino allo svuotamento totale dei polmoni.
Un esercizio semplice, che richiede qualche minuto di tranquillità e che si può ripetere fino ad 8 o 10 volte, anche da sdraiati, con un minimo di almeno 5 ripetizioni.
É yoga del respiro. Tant’è che, spesso, lo consiglio in accompagnamento ai movimenti di stretching statico, per una azione a tutto tondo sul sistema nervoso. Questa attività aiuta il SN autonomo a donare peso alla attività parasimpatica (quella del riposo e della calma, per intenderci), inoltre coordina e tonifica il plesso diaframmatico ed è già un buon lavoro per le esigenze esposte.
Quel benedetto diaframma
Abbiamo fatto un gran dire di questo incredibile muscolo che permette la vita, ma probabilmente non sappiamo COME la permette.
Innanzitutto il diaframma è la parte superiore di una scatola (addominale) che ha valenza nella sua completezza. Quindi dare l’oscar solo al coperchio è un pò sminuente.
Ecco perchè il primo consiglio in generale è quello di allenare in maniera corretta tutto l’ambaradam, come direbbe un noto comico. Il nostro CORE non aiuta solo la funzione respiratoria, bensì è un attore principale anche nella fase digestiva, nella produzione di qualsiasi tipo di movimento e nel fondamentale contenimento dei nostri organi.
Esercizio 2: respirazione diaframmatica
Appurato questo aspetto, diventa interessante capire cosa diavolo significhi “respirazione diaframmatica”.
Per capirlo è innanzitutto utile dividere la nostra pancia in 2 tronconi: sotto e sopra l’ombelico. Immaginate un equatore che passa attorno al corpo e lo divide proprio all’altezza ombelicale. Quando respiriamo di pancia, di solito, le due parti, a nord e a sud, si muovono più o meno insieme.
Ecco: per far lavorare ai nostri scopi il diaframma, occorre che si muova solo la parte a nord, mentre quella a sud dell’ombelico deve stare fermas. Non è impossibile, serve solo controllo coordinativo, che è quello che poi ci interessa nella pratica.
Come fare?
Sdraiati. Una mano sopra l’ombelico e una sotto. Si svuotano i polmoni più che si può. Addominali e glutei contratti. Se non sono contratti, contraeteli volontariamente. Due secondi di pausa per concentrarsi e poi cominciate lentamente ad inspirare mantenendo la parte a sud dell’ombelico sempre contratta. Sentirete dilatarsi soltanto la parte a nord, quella che dallo sterno arriva all’ombelico. Tutto qui. Ripete una decina di volte. E poi dategli continuità nel tempo.
Spoiler: se non avete mai provato è normalissimo che non riesca al primo colpo. Calma e fiducia: continuate imperterriti fino al successo. L’abitudine farà il resto. Presto riuscirete a farlo anche in piedi. Poi mentre correte, andate in bici o nuotate, per esempio. E così via.

Fine degli esercizi. Si potrebbe fare altro? Certo che sì, ma sta nella testa di ognuno capire quanto e se conviene.
Chi è interessato ad approfondire, ripeto, potrebbe acquistare uno dei tanti libri sull’argomento, non dimenticando cosa abbiamo chiarito in questo post, la reale utilità e il fine per cui lo sta facendo.
Io mi sono limitato all’ABC, la pratica spiccia e fruttuosa per runner e triatleti, e qui mi fermo.
Alla prossima 😉.
D.