FISIOLOGIA, TERZI OCCHI E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

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A scuola, dalle elementari fin all’università, ci raccontano che il nostro corpo è una macchina affascinante che funziona con regole più o meno ferree.

La cellula è una specie di centrale energetica ben organizzata, con ogni organello che svolge la propria funzione con precisione svizzera. É una specie di mondo molto ben delineato, senza ombre eccessive e buoni e cattivi subito individuabili.

Tuttavia la scienza moderna ha da tempo messo in discussione questi paradigmi. Solo che all’uomo, e allo sportivo in particolare, di tutto questo arrivano le briciole, filtrate da una informazione specifica, quella dei media e dei periodici di settore, tutta “money & commercial oriented”, fisiologicamente al passo solo con l’ultimo ritrovato commerciale ma, dal punto di vista scientifico, sempre e solo innamorata di un comodo passato.

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ESAMI DI ABILITAZIONE, pt. 1

Dovete sapere che, già anni fa, per passare gli esami di abilitazione da allenatore di atletica leggera (prima) e triathlon (poi), ho dovuto convalidare (io come tanti altri) delle inesattezze piuttosto macroscopiche, basate su studi scientifici e idee di più di 50 anni fa, che raccontavano la solita solfa: che i sistemi energetici sono 3, che in uno c’è produzione di acido lattico, in un’altro l’ossigeno non conta, etc etc.

Una favola che, messa a confronto con la realtà, fa acqua da un pò tutte le parti.

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P-NMR – RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE DEL FOSFORO E SENSORI NIRS

Chi ha avuto la possibilità di osservare questi processi a livello biochimico con tecnologie contemporanee (esempi: la P-NMR ovvero la risonanza magnetica nucleare del fosforo e i sensori che sfruttano la spettroscopia del vicino infrarosso, NIRS – Near Infrared spectroscopy), vede e descrive cose differenti (vedi studi in fondo): cioè che tutti i sistemi sono attivi contemporaneamente da subito, accesi istantaneamente dall’ossigeno (l’attore principale), con ruoli importanti, e totalmente da rivalutare, sia della fosfocreatina, che del lattato (sempre presente nel corpo umano come “carrier” energetico, anche quando siamo immobili a letto!).

Quindi tutto l’esercizio è aerobico e lattacido insieme: di anaerobico non c’è proprio un accidenti di niente. Questo significa rivalutare la lingua che inquadra le classificazioni degli sport e dei mezzi di allenamento in base ai sistemi energetici.

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ESAMI DI ABILITAZIONE, pt. 2

Il problema è che all’epoca, sul foglio del mio esame non c’erano crocette da mettere con queste possibilità. Quindi o davo il consenso a ciò che c’era, oppure potevo pure alzarmi e andarmene, rinunciando alle qualifiche in ballo: onorevole, ma dopo tanti mesi di alzate mattutine, chilometri in auto e denaro speso, decisamente poco furbo.

Per fortuna oggi, dopo anni di lavoro, un libro pubblicato, un altro in uscita (autunno ‘23) e questo mio blog, posso permettermi di scrivere ciò che penso in proposito, senza dover porre crocette ambigue, proponendo visioni differenti ai lettori: che siano atleti, allenatori, laureati in scienze motorie, fisioterapisti, medici, o semplici appassionati.

“Di anaerobico non c’è nulla”: una frase che, ancora per troppe persone, fa scuotere i pilastri della convinzione. Signori, abbracciate il dubbio ed approfondite.

Tutto è discutibile e nulla è immutabile, compreso ciò che ho appena scritto. Io stesso, in questi ultimi anni di studi e test, ho rivalutato alcuni miei punti di vista che in precedenza davo per scontati. Se accettiamo con pigrizia ciò che ci viene offerto, abbracciando la scienza come un dogma inequivocabile, una religione, perdiamo in partenza ciò che alimenta e migliora la scienza da secoli: il dubbio costante. Le più grandi invenzioni dell’uomo sono state scoperte grazie a personaggi che si ponevano domande diverse rispetto a ciò che la consuetudine prospettava.

Ed è proprio qui che volevo arrivare.

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INPUT & OUTPUT

Nella nostra ristretta visione, il protocollo di allenamento sino ad oggi è stato un punto di controllo.

Esempio: sappiamo che fare Interval training migliora il massimo consumo di ossigeno e il pompaggio cardiaco, che le ripetute sono uno dei modi più efficaci per migliorare la soglia del lattato, che il lungo lento migliora la resistenza di base e la circolazione periferica, per cui, ad ogni problema specifico, ad ogni obiettivo che ci poniamo, rispondiamo con un determinato mezzo di allenamento.

Ognuno di questi mezzi ci offre un modo diretto e generico per intervenire sui nostri aspetti metabolici e biochimici. Comode tabelle con set e ripetizioni per costruire la forza, protocolli di intervalli più o meno lunghi, scritti per fornire un preciso adattamento: un dato input fornisce sempre lo stesso output (N.B.: proprio come una macchina…notate)?

Come detto, questo è il modo in cui spesso viene insegnata la fisiologia dell’esercizio fisico ed è anche il modo in cui un pò tutti noi ci approcciamo ad esso.

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LA REALTÁ DI UN ADATTAMENTO

Poi c’è ciò che accade nella realtà.

E, nella realtà, chiunque si sia allenato, o abbia allenato esseri umani per un po’ di tempo, sa che l’adattamento all’esercizio è qualcosa di molto più complesso e variegato.

Un determinato protocollo non solo può portare a risultati diversi per due individui, ma può portare a risultati diversi anche per lo stesso individuo in due momenti diversi.

Il problema è che, a parità di mezzo allenante, ognuno di noi reagisce col SUO corpo e i SUOI tempi biologici. Quindi non è il mezzo allenante che fa la vera differenza, ma il corpo sul quale lo andiamo ad applicare. Ecco perchè la nostra attenzione non dovrebbe essere data in modo così ossessivo alle tabelle e ai mezzi in esse applicati, quanto più a come ogni singolo individuo risponde ad essi.

Il vero problema è capire perché l’atleta sia progredito così bene o, in alternativa, perché non sia riuscito a farlo, con una determinata proposta di allenamento.

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RISPOSTE DA DENTRO

Una volta le risposte potevano provenire solo da noi stessi, dalla nostra mente e dalle sensazioni di cui siamo dotati. Oggi ci viene incontro la tecnologia.

Prima c’erano orologi e sensori che ci indicavano solo il passo e la velocità, i risultati esterni di ciò che stavamo facendo. Poi abbiamo cominciato a capire che serviva osservare cosa stava accadendo dentro il nostro corpo e sono arrivati i sensori per la frequenza cardiaca.

Eppure il margine di errore in allenamento continuava ad esserci eccome.

Così è arrivata la possibilità di osservare le metriche di corsa e di stimare il proprio massimo consumo di ossigeno. Ma l’errore era sempre lì.

Così abbiamo aggiunto la potenza in watt tenuta durante l’esercizio e con essa la stima della potenza critica. Anche il nostro battito del cuore meritava un interesse maggiore. Ed è arrivato l’Hrv (analisi del battito cardiaco) con le relative valutazioni anche sulla gestione del sonno e del recupero ideale.

Oggi questi stessi device offrono previsioni di ogni tipo: ritmi gara, tempi di allenamento e di recupero, fino addirittura a consigli di mezzi simil-ideali per migliorare lo stato di forma in rapporto all’obiettivo prefissato. Tutto basato su varianti sfumate di un unico algoritmo (ne parlerò più approfonditamente nel Vol. 2 di RUN) e intelligenze artificiali.

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I TERZI OCCHI CRESCEVANO MEGLIO IN PASSATO

Il margine di errore si assottiglia, eppure è sempre lì. Ed è pronto a manifestarsi con un personal best inaspettato, tanto quanto un overreaching inatteso o un infortunio imprevisto. E tutte le convinzioni legate alle analisi che si stavano facendo, vanno allegramente a farsi benedire.

Mi piacerebbe poter dire che per gli allenatori è molto diverso, ma non è così. O meglio: lo è solo parzialmente.

Questo perchè i vari scenari di ogni atleta (amatore o pro) sono influenzati da interdipendenze tra un numero incalcolabile di fattori (genetici, storici, metabolici, lavorativi, famigliari, psicologici, etc) che superano il potere esplicativo delle regole che usiamo per guidare il nostro processo decisionale.

É come guardare due Tir che si scontrano: potrai anche capire la fisica della collisione, ma ci sono così tante cose che accadono contemporaneamente che prevederle tutte diventa veramente difficile. Ecco perchè sarebbe necessario avere un “terzo occhio”.

Ed era più facile averlo in passato, quando non c’era nulla ad aiutarci ed eravamo costretti a guardare dentro noi stessi per trovare risposte. Mentre ora cerchiamo fuori, nei dati e nella loro interpretazione, la responsabilità di ogni singolo errore.

“Ma il Garmin mi diceva questo…”. Quante volte l’ho sentita questa frase.

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QUALCOSA DI BUONO

Eppure, fortunatamente, anche oggi alcuni atleti ed allenatori (troppo POCHI!!!) coltivano un terzo occhio sensoriale.

Chiamatelo come vi pare. Per quanto mi riguarda è una profonda conoscenza dei paradigmi pratici che governano il corpo, sommata a sensibilità specifica: un canale percettivo diretto su se stessi (nel caso degli atleti) o sugli altri (nel caso degli allenatori) che permette di manipolare meglio le tante variabili in essere e in divenire.

Oggi la dipendenza verso la tecnologia mina severamente queste capacità innate dell’uomo e siamo costretti a virare su soluzioni sempre più al di fuori di noi stessi.

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INTELLIGENZE ARTIFICIALI

Serve qualcosa che sappia fare con efficacia ciò che l’uomo spesso stenta a concepire, ovvero imparare dai propri errori. Ed è qui che spalanchiamo la porta ad un particolare futuro che ci si prospetta.

Le ultime intelligenze artificiali, basate su modelli di auto-apprendimento, saranno il nostro terzo occhio e probabilmente anche il quarto.

Studiando come lavorano, ho notato una cosa interessante e, se vogliamo, preoccupante: l’intelligenza artificiale guadagna una parte considerevole del suo potere predittivo proprio abbandonando i tipi di generalizzazioni che noi esseri umani tendiamo in media ad applicare. Questo significa che chi ha creato questo tipo di tecnologia (cioè noi) ha ben presente il nostro principale difetto: la pigrizia. Ecco perchè tante persone sono preoccupate dall’arrivo di questi sistemi di AI.

“Ci ruberanno il lavoro”.

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UNA FINE GIÁ SCRITTA?

E se invece cominciassimo a studiare, informarci, sbatterci…e, soprattutto, a pensare fuori dagli schemi?

Oddio. Gli schemi. Che rendono tutto più semplice, quegli splendidi schemini che ci insegnano a scuola fin da piccoli…Perchè abbandonarli, perchè sudare così tanto?

E allora la scelta sarà obbligata.

Nel tempo, le AI, questi “pericolosi insiemi di chip”, potrebbero prevedere cose in modi così precisi che noi non potremmo mai sognarci di fare.

Volete scappare? Sono con voi. Ma dovremo modificare il nostro modo di pensare.

Oppure no, forse c’è una soluzione alternativa, quella delle favole a lieto fine: imparare ad usarle a nostro vantaggio.

Questi stessi sistemi potrebbero aiutare l’uomo in generale e, più in specifico, atleti ed allenatori, a ridefinire il mondo della prestazione, dimostrandosi quel “terzo occhio” che in tanti, troppi, non hanno più.

Ma è una scelta plausibile? O la nostra pigrizia ha già scritto come finirà veramente?

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BIBLIOGRAFIA (grazie al collega Andrea Zolea per il prezioso aiuto nel momento del bisogno 😉):

  1. Shulman RG, Rothman DL. The “glycogen shunt” in exercising muscle: A role for glycogen in muscle energetics and fatigue. Proc Natl Acad Sci U S A. 2001;98(2):457-461. doi:10.1073/pnas.98.2.457
  1. Chung Y, Sharman R, Carlsen R, Unger SW, Larson D, Jue T. Metabolic fluctuation during a muscle contraction cycle. Am J Physiol. 1998;274(3):C846-C852. doi:10.1152/ajpcell.1998.274.3.C846

Cosa è la Near Infrared Spectroscopy (NIRS): livello clinico

  1. https://www.gimsi.it/impiego-della-near-infrared-spectroscopy-nirs-nello-studio-della-sincope/

L’applicazione NIRS allo sport: una review sistematica di 57 studi

  1. Perrey S, Ferrari M. Muscle Oximetry in Sports Science: A Systematic Review. Sports Med. 2018;48(3):597-616. doi:10.1007/s40279-017-0820-1

Lo studio di Kirby e colleghi presso il Nike Sport Research Lab, come parte del lavoro alla base del progetto Nike Breaking2

  1. Kirby BS, Clark DA, Bradley EM, Wilkins BW. The balance of muscle oxygen supply and demand reveals critical metabolic rate and predicts time to exhaustion. J Appl Physiol (1985). 2021;130(6):1915-1927. doi:10.1152/japplphysiol.00058.2021

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