L’APPOGGIO DEL PIEDE NELLA CORSA

L’appoggio del piede nella corsa è certamente importante per una questione di centralità fisiologica: corriamo sui nostri piedi.
Ma da qui a modificare posture, appoggi, frequenze e meccanismi biomeccanici vari è necessario valutare una serie piuttosto ampia e particolare di dati che potrebbero rivoluzionare le decisioni in gioco, o quanto meno farci pensare, nel caso, a come poterlo fare senza richiederci sforzi inutili, dispendiosi e pericolosi.
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CHIARIAMO SUBITO
Prendete un vaso di ceramica.
Fatelo cadere per terra da 1 metro e mezzo di altezza partendo da inclinazioni differenti.
Ammesso che andrà in pezzi comunque, in base a come quel vaso toccherà terra, avremo risultati/cocci differenti.
Adesso faccio una domanda:
secondo voi la possibilità che il vaso non si rompa dipende più dall’inclinazione che gli si da o dall’altezza da cui cade?
Perchè, se la risposta è “dall’inclinazione”, abbiamo un problema Watson.
Diversamente, significa che avete già compreso il concetto generale.
Considerate l’altezza come il carico d’allenamento.
Vorrei subito chiarire: è il carico di allenamento la variabile più importante se parliamo di prevenzioni di infortuni.
Se poi vogliamo “raccogliere meno cocci possibile”, a quel punto, entriamo pure nel discorso.
Ma che io atterri di tallone, mesopiede, avampiede, ginocchio, gomito o orecchie……..il vaso, se cade da troppo in alto, si rompe lo stesso, spero sia chiaro.
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LA TOCCO PIANO
Scusate se sono entrato subito a gamba tesa, ma in questi ultimi anni ho visto troppa gente concentrarsi su cose potenzialmente errate.
Pensieri tipo: “Mi infortuno sempre, quindi adesso cambio impostazione di corsa e risolvo” sono modi bislacchi per infortunarsi prima o, semplicemente, in maniera differente.
ESEMPIO CLASSICO
Il quarantenne di oggi si alza la mattina e dopo una vita di scampagnate dissennate comincia a correre.
I chilometri si sommano ai chilometri, la fatica alla fatica, qualcuno comincia anche a fare gare e, nel giro di qualche mese, arriva l’infortunio.
Puntuale.
Al che, in preda alla disperazione, dopo mesi di convivenze con dolori vari, prove, controprove, giri da fisiatri ed ortopedici, in molti arrivano a forza di leggere articoli su articoli alla massima: “il mio antenato correva scalzo sull’avampiede e non aveva problemi. Devo tornare alle origini”.
Il tuo antenato correva scalzo perchè non esistevano calzature e doveva “pedalare” perchè se no non mangiava.
Adesso si sta seduti ad una scrivania per 8 ore al giorno, in macchina per altre 2, e tutta la sera sul divano a guardare la tv.
Tutto questo dopo una vita a frequentare palestre e a giocare a calcetto dopo una gioventù di sport fatto 2 o 3 volte la settimana con scarpe equivoche.
In questo paesaggio medio e desolante, la corsa arriva come la salvezza suprema e la droga naturale che mancava.
“Quando corro riscopro me stesso”.
E te credo. Le endorfine che la corsa procura sono una via di fuga certa, reale.
L’incessante ricerca di come protrarre al massimo questo gesto con risvolti biochimici così piacevoli deve trovare risposte. Come fare?
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VOGLIO CORRERE COME UN CAMPIONE

La tendenza numero uno in assoluto è guardare i campioni.
Se i campioni corrono in una certa maniera evidentemente bisogna correre così.
A nessuno è mai passato per la testa che, innanzitutto, anche i campioni si infortunano.
“Si ma quando corrono sembra che volino”.
ALT.
Un atleta d’élite corre così perchè:
- lo fa da una vita
- sta ore e ore sulle gambe ad allenarsi tutti i giorni
- ha di certo una struttura muscolo-tendinea più abituata al gesto
- tiene velocità che biomeccanicamente incoraggiano un certo tipo di appoggio.
Eccoci al dunque. L’appoggio. Argomento enigmatico tanto di moda.
Cosa dovrebbero fare i nostri piedi quando corriamo?
SCIENZA E STATISTICA

La maggior parte dei runners, sia amatori che élite, attaccano di tallone, è statistica.
La scienza dice che velocità e appoggio sono collegati: più velocemente si corre, maggiore è la probabilità di atterrare di meso o avampiede.
Se consideriamo l’appoggio del piede in uno spettro che va dal camminare allo sprintare al massimo delle possibilità, ci accorgiamo che il nostro cervello compie i cambi necessari di appoggio senza alcun pensiero-guida.
Camminiamo appoggiando il tallone, sprintiamo al massimo impattando il terreno in una posizione naturalmente più avanzata.
Questo dovrebbe già farci ragionare. Ma torniamo al vaso iniziale.
Dicevamo che cambiare inclinazione non cambia granché il risultato finale.
Questo perchè, parliamoci chiaro, nessun appoggio offre un vantaggio netto rispetto all’altro: ci sono pro e contro in ognuno di essi.
È importante rendersi conto che i vari appoggi possono modificare il modo in cui il carico viene distribuito MA NON IL CARICO STESSO.
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ANALIZZIAMO LA SITUAZIONE

Passiamo all’analisi:
- Correre di tallone carica di più tibia e ginocchio e meno piede e caviglia.
- Viceversa, correre di mesopiede carica (potenzialmente) meno tibia e ginocchio e di più piede e caviglia.
Inoltre questo secondo tipo di atterraggio sfrutta maggiormente la funzione elastica dei nostri tendini.
Impattando con la parte mediale/anteriore del piede, il nostro tendine di Achille e la fascia plantare si allungano di più al momento dell’impatto: questo ci permette di usarli come una fionda negli istanti subito successivi.
Più si allungano, più possono aiutarci a spingerci in avanti.
Bene, ma c’è una fregatura.
Questo beneficio può essere annullato dal fatto che il polpaccio deve lavorare molto più duramente. Quindi, se parliamo di corsa di resistenza, l’economia del gesto, alla lunga, potrebbe esserne influenzata negativamente. Non per niente anche una grande fetta degli elite in maratona più si allunga la gara più tendono ad atterrare in modo naturale più verso il tallone (questa è statistica pura).
Per non parlare dei danni potenziali che è possibile fare a livello tendineo, dei gemelli e del soleo senza un adeguato rinforzo alla base.
Ho volutamente escluso l’appoggio in avampiede puro poichè lo ritengo in assoluto il meno adatto per la corsa di endurance, mentre rimane l’alleato ideale per gli sprinters e i cultori della velocità in pista. Correre in maniera prolungata con questo tipo di appoggio scarica forze imponenti sulla catena posteriore del corpo aumentando ulteriormente il carico rispetto all’azione sul solo mesopiede.
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ATTERRAGGI A GAMBE TESE
Inoltre è (purtroppo) consueto vedere runners lavorare intensamente sull’appoggio per passare da un atterraggio di tallone a gamba tesa (e ginocchio bloccato) ad uno in avampiede…sempre a gamba tesa (e ginocchio bloccato).
Un pò come passare dalla padella alla brace.
Avrete capito che un ginocchio flesso, in appoggio, fa CERTAMENTE la differenza. Ma avremo la possibilità di rimarcarlo proseguendo nel discorso.
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FORZE DI IMPATTO

Colpire il terreno col tallone provoca un picco di impatto verticale nei primi millisecondi di contatto al suolo per poi raggiungere la forza massimale poco prima di metà rullata, mentre impattare di meso o avampiede ha una distribuzione del carico molto più graduale, senza picchi particolari.
Ecco perchè la maggioranza delle scarpe da running ha quantitativi imponenti di gomme ammortizzanti sul tallone: considerando la percentuale di tallonatori esistente (moltissimi), questa particolare densità viene impostata proprio per rallentare la forza del picco di impatto e trasmetterla in maniera meno stressante a muscoli ed articolazioni.
Attenzione: evito deliberatamente, in questo post, di parlare di come le scarpe possano influenzare la corsa, perchè è un discorso che va gestito a parte, in modo coerente ed esaustivo. Non voglio mischiare la carte in tavola.
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CONVENIENZA ED EVENIENZA

A questo punto verrebbe da dire che impattare ripetutamente di tallone fornisca possibilità concrete di traumatizzare tutto ciò che sta sopra di esso, ma la scienza, pur sottolineando una teorica convenienza di appoggio in mesopiede, suggerisce che vi sono altri fattori possibili che possono entrare in gioco in questi casi, mitigando (ed ingarbugliando) parecchio le conclusioni.
In sostanza, se tutto fosse così chiaro e lampante…come sarebbe possibile vedere amatori allegramente tallonatori fare per anni una media di 90-100 km a settimana senza alcun problema? Io stesso ne ho allenati alcuni anche di ottimo livello e posso assicurare che l’appoggio era l’ultimo dei loro problemi!
Preoccuparsi solo del piede ed escludere dai calcoli ciò che accade al di sopra di esso, a livello del ginocchio e delle anche, significa mancare il bersaglio di un bel pò.
Esempio stupido: essere tallonatori può non significare nulla se, al contempo, le ginocchia, in fase di atterraggio (come già sottolineato in precedenza), mantengono un buon angolo di flessione.
Le forze di impatto, in questo caso, perdono parecchio potenziale “dirompente” e tutto il discorso sulle problematiche relative al ginocchio va spensieratamente a farsi benedire.
Questa è solo una delle tantissime ipotesi che si possono prendere in considerazione. Gli incastri, a livello di biomeccanica, sono tanti quanti il numero di runner in questo momento nel mondo.
Ognuno vive la sua particolare situazione.
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FREQUENZA/AMPIEZZA

Parliamo adesso di frequenza.
É meraviglioso come l’attenzione dei media specifici, di atleti e addetti ai lavori, negli ultimi anni, si sia concentrata sull’importanza della frequenza del passo: sembra essere diventato necessario correre a 180 bpm.

Il perchè è presto detto: meno si sta per terra, più diminuisce il danno potenziale che è possibile procurare alle strutture muscolari. Inoltre aumentare la frequenza di passo tende ad eliminare il fenomeno dell’overstriding (vedi immagine a sx), ovvero l’appoggio a gamba tesa lontano dal proprio centro di massa (cioè, grossomodo, qualche centimetro oltre la perpendicolare del proprio bacino).
Ed ecco file chilometriche di podisti che si distruggono concentrandosi sulla frequenza, facendo la fine della formichina: tanti piccoli passettini, stessa strada di prima, un impegno nervoso decisamente amplificato e molta più fatica in generale.
Risultato dell’operazione: meno economia.
E anche qui il metro di paragone sono gli atleti d’élite. Infatti è emerso da diversi studi che gli élite non corrono a frequenze inferiori a 180 passi al minuto.
Non dimentichiamoci infatti che correre significa anche avere un rapporto ideale di frequenza/ampiezza e lavorare su una delle due grandezze singolarmente significa per forza di cose andare ad intaccare l’altra.
Quindi non si possono effettuare cambiamenti senza prima avere realmente valutato la situazione alla base dell’atleta e soprattutto senza sapere COME andare ad agire sulla modifica (tipo nel modo che segue).
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CALCINCULO

Ho visto tanti metodi prodotti per complicarsi la vita in questi anni, ma il più inutile e dispendioso in assoluto, fra questi cambi di impostazione atti ad accorciare la falcata e far sì di cadere il più possibile sotto il centro della propria massa, è quello di richiamare il tallone verso il gluteo, quasi a volersi calciare le chiappe.
Ho avuto la possibilità di vedere dal vivo uno stage di runners che praticavano questa cosa, uno dietro l’altro, in un prato. Molto divertente se ci pensate, una situazione quasi comica (nella sua drammaticità). Il bello è che molti di essi si lamentavano di problemi agli ischiocrurali (e cosa gli vuoi dire…).
Sono rimasto talmente impressionato che ho espressamente intitolato un paragrafo del mio libro: “Calcinculo” proprio in onore di questa pratica sadica, che molti propongono come soluzione a tanti problemi, ignorando completamente una delle leggi più vere e concrete della corsa: “la falcata migliore è sempre quella spontanea” (Heinert, 1988).
Se spontaneamente amate calciarvi il didietro significa che un nuovo feticcio sportivo è nato, cresciuto e pronto per essere commercializzato.
Organizziamo dei campionati di corsa calciata a questo punto.
E scusate la presa in giro spontanea. Si scherza.
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LA PROVA SUL TAPPETO

A proposito di spontaneità, una delle prove più interessanti che si possono fare è quella di farsi riprendere mentre si corre su un tapis roulant con le proprie scarpe da running ad una determinata velocità e fare la stessa cosa (sempre alla stessa velocità) scalzi o solo coi calzini indosso. Magicamente la falcata si modifica, la frequenza aumenta, l’appoggio avanza. Tutto spontaneamente.
Questo a rimarcare che il nostro cervello fa tutto da solo senza troppe leggi e costrizioni e sceglie ciò che è meglio per il corpo in automatico.
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Quindi, cari amici, credetemi: smettete di preoccuparvi di come impattate quei piedi a terra, soprattutto se non siete più dei “bambini”.
Rinforzatevi adeguatamente, eseguite esercizi dinamici che tendano a migliorare la risposta neuromuscolare e l’uso dei piedi. Fatelo con gradualità e pazienza, senza fretta. I risultati importanti si ottengono col tempo.
Migliorare la risposta del corpo e la vostra corsa migliorerà di conseguenza anche l’appoggio.
In questo modo avrete responsi diretti, istintivi ed autonomi dal corpo. Senza spese energetiche superflue ed inutili.
Lavorare su certi aspetti tecnici in età giovanile è fare le cose al momento giusto: un momento in cui il corpo elabora e gestisce gli stimoli con molta facilità ed efficacia.
Da adulti è necessario, ripeto, tempo, pazienza e COERENZA.
In ogni caso è la somma globale dei vari aspetti tecnici distribuiti all’interno della pianificazione che fa sì che il passo possa mano a mano assumere (spontaneamente e non perchè glielo si impone) una forma più economica ed efficiente.
Eccoci al dunque: economia ed efficienza.
Ecco i goal dell’endurance.
Non è la corsa perfetta che bisogna inseguire, bensì perfezionare la PROPRIA. Senza tentare di assomigliare a nessuno.
Quindi cercate di costruire allenamenti in base a chi siete, non a chi vorreste essere.
Lo ripeterò all’infinito: non abbiate fretta e usate accortezza e gradualità, cercando un rapporto sano con l’allenamento e gli obiettivi che vi ponete.
Mettere un materasso sotto a quel vaso non è semplice. Ma accorciare la distanza che lo separa da terra, beh, su quello ci si può lavorare.
Alla prox.
D.